Anni fa, oltre ai testimoni di Geova e ai militanti di Lotta comunista, usavano citofonare anche gli ispettori del canone tv. Alcune famiglie si paravano sul ciglio della porta negando di possedere l’apparecchio, oppure di averlo ma in bianco e nero. Altri sostenevano che “sì, la tv c’è, ma non l’accendiamo, forse è anche rotta”. Altri scaricavano il dazio sugli altri, “la guarda solo mia moglie”. Evasioni domestiche di una tassa voluta da Mussolini per sostenere la propaganda con i soldi pubblici, notoriamente odiata, poco difesa e ossessione di ogni politico che in campagna elettorale ne promette la cancellazione, magnificando privatizzazioni o interventi diretti da parte dell’esecutivo. Strada imboccata con veemenza in Francia da Emmanuel Macron, che ha definito il canone “una vergogna” (parbleu!) e rassicurato sull’amore del governo per il pluralismo. Parole che non hanno convinto i lavoratori di France Television, soprattutto giornalisti, scesi in piazza nei giorni scorsi per rivendicare “l’indipendenza del servizio pubblico, che non deve dipendere dai capricci di un voto”. In Francia il canone è di 138 euro (noi ne paghiamo 90), quasi quattro miliardi all’anno con cui finanziare programmi e news. Far decidere il budget al governo, dicono i sindacati, causerebbe pressioni e altri abusi ai danni dell’informazione. Senza dimenticare che dietro l’angolo, grande fan della mozione Macron, c’è Marine Le Pen. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1467 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati