La vendetta è la vera religione dei dittatori più meschini. Prendete Aleksandr Lukašenko, l’uomo forte al governo in Bielorussia, che ha attirato persone disperate dal Medio Oriente e dall’Africa promettendogli un facile ingresso nell’Unione europea attraverso il confine tra il suo paese e la Polonia. Lukašenko voleva punire l’Europa per il sostegno dato alle manifestazioni antigovernative in Bielorussia. E ha cercato di rafforzare la sua posizione nei confronti della Russia, oltre che di distrarre i propri cittadini dai problemi interni. Sfruttare le sofferenze dei migranti per vendicarsi non è stata una mossa molto originale. Nel suo nuovo libro The age of unpeace, Mark Leonard, citando le ricerche del professore statunitense Kelly Greenhill, sottolinea che dal 1951, cioè da quando è entrata in vigore la convenzione sui rifugiati, in tutto il mondo governi e altri centri di potere hanno cercato almeno 75 volte di usare migranti e rifugiati come arma politica. In tre quarti dei casi presi in esame da Greenhill, le autorità che hanno usato questa strategia hanno ottenuto qualcosa. In più della metà hanno raggiunto tutti gli obiettivi che desideravano, rendendo questo strumento non convenzionale più efficace delle sanzioni economiche o della diplomazia coercitiva abbinata all’azione militare.

Il tentativo di Lukašenko potrebbe concludersi con uno dei rari fallimenti di questa strategia. La settimana scorsa le autorità bielorusse hanno cominciato a sgomberare gli accampamenti al confine con la Polonia. I migranti sono stati spostati in un centro logistico dove almeno possono mangiare e ricevere cure mediche. Da Minsk è partito il primo volo di rimpatrio verso l’Iraq. Il piano di Lukašenko è fallito, a meno di voler credere che abbia messo in piedi tutto questo solo per poter parlare al telefono con la cancelliera tedesca Angela Merkel.

L’Unione si è schierata con la Polonia contro il regime bielorusso perché teme il ritorno alle divisioni tra est e ovest nate durante la crisi dei rifugiati del 2015. Ma è tutt’altro che unita

Eppure, anche se le tensioni al confine tra Polonia e Bielorussia si sono attenuate, non si può parlare esattamente di una vittoria per il blocco dei 27 paesi dell’Unione. La crisi ha rivelato che l’Europa è nel panico. La sua politica estera è intrappolata nel crescente divario tra la retorica idealista di Bruxelles e la realpolitik praticata dai suoi stati membri. L’Unione si è schierata con la Polonia contro il regime bielorusso perché teme un ritorno alle divisioni che erano esplose tra est e ovest durante la crisi dei rifugiati del 2015. Ma è tutt’altro che unita. Il governo polacco sta facendo una guerra su due fronti: da una parte lotta per fermare i migranti al confine, dall’altra per dimostrare che non ha bisogno dell’Europa per difendere le sue frontiere.

La crisi ha evidenziato la grande contraddizione di Bruxelles. I dittatori temono che i loro cittadini siano attratti dalle libertà e dallo stile di vita che abbiamo in Europa, e per questo sognano un mondo senza Unione. Ma i politici europei sono i primi a essere in soggezione nei confronti del proprio soft power: si sentono incapaci di aiutare chi vuole più democrazia nel suo paese e temono l’arrivo dei migranti. Il loro incubo peggiore è il ritorno di un populismo di destra ostile all’immigrazione, che per le democrazie europee potrebbe rivelarsi più letale di qualsiasi pandemia.

Il risultato è che Bruxelles ha paura delle stesse cose che determinano la sua forza di attrazione. Una volta l’Europa si faceva forte dell’idea che molte persone nel mondo volessero vivere come i suoi cittadini. Oggi questa idea la spaventa. La pandemia ha insegnato a essere pessimisti. Così, mentre guardavano i video dei migranti che prendevano d’assalto il confine polacco, molti cittadini europei avranno sicuramente pensato ai rapporti sul clima, secondo i quali entro il 2070 circa tre miliardi di persone non potranno più vivere nelle zone in cui si trovano oggi.

Le discussioni su come il covid-19 cambierà l’Europa hanno oscurato i modi in cui questo cambiamento è già avvenuto. La crisi economica innescata dalla pandemia ha convinto anche gran parte dei difensori delle regole sul deficit di bilancio che spendere è più sensato che aggrapparsi alla disciplina fiscale. E così, per quanto riguarda le politiche economiche, l’Europa si è spostata a sinistra. O, se preferite, a sud, adottando la posizione sostenuta dagli stati dell’Europa meridionale dopo la crisi dell’euro. Sull’immigrazione invece si è spostata a destra. O, se preferite, a est, adottando la posizione di molti stati dell’Europa centrale e orientale durante la crisi del 2015. L’emergenza del covid-19 ha prodotto un tacito consenso sul fatto che l’Unione dovrebbe tenere chiusi i confini esterni per mantenere aperti quelli interni.

Nella crisi bielorussa, Lukašenko spera di combattere il sogno del suo popolo di “diventare Europa” evocando l’incubo dei dirigenti dell’Unione, cioè che “tutti vengano in Europa”. Quando alimenta queste paure, il dittatore poggia su un terreno più saldo di quanto i suoi detrattori vogliano ammettere. ◆ ff

Ivan Krastev dirige il Centre for liberal strategies di Sofia. Il suo ultimo libro uscito in Italia è Lezioni per il futuro. Sette paradossi del mondo nuovo (Mondadori 2020).

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Questo articolo è uscito sul numero 1437 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati