Dopo aver ascoltato per mesi il presidente degli Stati Uniti Joe Biden affermare che la democrazia è in conflitto con l’autoritarismo, la Cina di Xi Jinping e la Russia di Vladimir Putin stanno lanciando una controffensiva ideologica. A marzo Xi ha accusato Washington e i suoi alleati occidentali di perseguire “il contenimento da tutte le direzioni, e l’accerchiamento e la repressione contro di noi”. Putin ha firmato un documento che delinea una politica estera finalizzata a limitare il “dominio” dell’occidente.

Il loro discorso non si può certo paragonare all’ardore e all’eloquenza con cui Mao Zedong inaugurò la Repubblica popolare cinese nel 1949: “La nostra non sarà più una nazione soggetta a insulti e umiliazioni”. E anche Nikita Chruščëv fu più incisivo nell’affermare che il comunismo era più resistente del capitalismo, quando dichiarò: “Vi seppelliremo”. Putin e Xi non hanno lo stesso peso ideologico e il fascino dei loro predecessori. Durante la guerra fredda l’Unione Sovietica e la Cina sostenevano di offrire un nuovo modello di organizzazione della società, della politica, dell’economia e dell’ordine mondiale. Oggi la Russia, uno stato corrotto successore dell’Unione Sovietica, e la Cina del dopo Mao incarnano poco più che una volontà di potere nazionalistica. Gli occidentali potrebbero trovare sconcertante e stucchevole l’espressione “secolo di umiliazioni” ripresa continuamente dai cinesi. Ed è facile deridere la presunta determinazione di Putin a “creare le condizioni affinché ogni stato possa respingere le mire neocolonialiste ed egemoniche”. Ma questa retorica risuona nell’esperienza storica di gran parte della popolazione mondiale. E fa presa sui paesi che sono stati esposti alle umiliazioni dell’imperialismo e del colonialismo e che per decenni hanno subìto guerre per procura, colpi di stato organizzati dalle agenzie d’intelligence occidentali, sanzioni e duri programmi economici imposti dalle istituzioni finanziarie dominate dai paesi occidentali.

Le tante proteste delle nazioni più deboli nei confronti dell’occidente sono state in gran parte messe a tacere nel periodo tra il crollo del comunismo e la crisi economica del 2008

Le numerose proteste delle nazioni più deboli nei confronti dell’occidente sono state in gran parte messe a tacere nel periodo tra il crollo del comunismo e la crisi economica del 2008. Le guerre per procura e i colpi di stato sembravano un ricordo del passato, nella speranza che la marea della globalizzazione avrebbe coinvolto tutti i paesi del mondo. Perfino Russia e Cina sembravano aver abbracciato quello che i leader occidentali chiamavano “ordine internazionale basato sulle regole”.

Oggi quel consenso è in frantumi. La Cina è cresciuta più rapidamente del previsto, grazie a un uso selettivo delle regole della globalizzazione. E la Russia, umiliata e sminuita negli anni novanta, si è trasformata sotto Putin in un gigante delle materie prime e in una potenza militare in cerca di riscatto. Agli occhi dei non occidentali, l’occidente ha abbandonato le sue promesse di pace e prosperità universali. Gli Stati Uniti si sono ritirati nel protezionismo economico, mentre la Nato, un’istituzione concepita per la guerra fredda, continua a espandersi fino ai confini della Russia. Con la formazione del blocco Aukus (un patto per la sicurezza tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti), la Cina si confronta con la stessa alleanza di paesi a maggioranza bianca che a metà del novecento tentò, in modo disastroso, di contenere un altro stato asiatico in ascesa: il Giappone.

Queste azioni fanno temere una terza guerra mondiale. L’aumento delle tensioni lascia sgomenti i paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina che hanno beneficiato di due decenni di globalizzazione e dell’ascesa della Cina, e che ora provano ansia e risentimento. Vedono nell’“apartheid vaccinale” dei ricchi stati occidentali durante la pandemia una conferma che questi proteggeranno sempre i propri interessi. Inoltre sentono il contrasto tra la generosa ospitalità rivolta ai rifugiati ucraini e i muri e le recinzioni che l’occidente costruisce per tenere fuori dai suoi confini le persone dalla pelle più scura. I segni di una ripresa dell’antioccidentalismo sono ovunque: un filmato virale del presidente della Namibia che istruisce un politico tedesco in visita nel paese sui misfatti del razzismo europeo; il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva che incolpa gli Stati Uniti e la Nato per la guerra in Ucraina e indica la Cina come un mediatore imparziale; la popolarità di Putin in aumento in Indonesia. Come ideologia l’antioccidentalismo ha pochi contenuti sostanziali o positivi, ma per alcuni può essere terribilmente utile.

È evidente che nella geopolitica le passioni giocano un ruolo più importante degli interessi razionali e delle idee astratte. In questa nuova guerra fredda Putin e Xi stanno puntando sull’inconscio politico del mondo non occidentale. L’occidente deve rispondere con qualcosa di più delle solite frasi sulla democrazia e l’autoritarismo. ◆ ff

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Questo articolo è uscito sul numero 1508 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati