Il 25 febbraio 2025 il presidente degli Stati Uniti ha postato un video sui suoi social, una visione del dopoguerra a Gaza creata da un’intelligenza artificiale. Per entrare in questa utopia trumpiana bisogna prima passare per un grande buco, come l’imbocco di una grotta o l’entrata di una miniera. Da un lato del portale ci sono la guerra, la devastazione, i massacri, gli orfani, le case distrutte. Dall’altro, un resort sul mare con le palme, cestini di pane pieni di hummus, hotel in stile Las Vegas e immagini dorate del grand’uomo in persona. Ci sono dollari che piovono democraticamente su bambini vestiti di stracci come su Elon Musk. Nel frattempo, Donald Trump e Bibi Netanyahu sorseggiano cocktail su due lettini da spiaggia, in un panorama modificato per adattarsi alle loro esigenze e ai loro interessi. Il tutto accompagnato da una canzoncina:
Donald’s coming to set you free / Bringing the light for all to see / No more tunnels, no more fear / Trump Gaza is finally here. / Trump Gaza shining bright / Golden future, a brand new light / Feast and dance, the deal is done / Trump Gaza number one
Da un lato del portale ci sono la guerra e le case distrutte. Dall’altro, un resort sul mare con le palme
(Sta arrivando Donald a liberarvi tutti /A portarvi la luce e aprirvi gli occhi / Niente più tunnel, niente più paura / Trump Gaza è qui finalmente / La Gaza di Trump splende luminosa / Futuro dorato, una luce radiosa / Festeggiate e ballate, l’accordo è concluso / La Gaza di Trump è la numero uno)
Durava solo trentatré secondi, questo video “satirico”, ma è uno dei ritratti più completi che io abbia mai visto di quello che chiamerò l’immaginario americano. All’interno dell’immaginario americano, è sempre esistita una sottocategoria di persone che non solo sono nate per soffrire in questo mondo, ma ci sono anche abituate. Vengono dagli shithole countries, “i paesi di merda”, come li ha definiti il presidente durante il suo primo mandato. Nel corso della storia questa regione ha avuto vari nomi: “il terzo mondo”, “il sud del mondo”, “l’Arabia” (E potrebbe allargarsi: forse presto includerà anche tutta “l’Europa orientale”, come sta scoprendo il presidente ucraino Zelenskyj). In questi luoghi vivono i “dannati della Terra”, come li definiva Frantz Fanon, lo psichiatra e filosofo della Martinica che, anche se è morto nel 1961, è uno dei pensatori politici più rappresentativi del nostro momento storico. Fanon aveva diagnosticato tutto questo, molto tempo fa. Capiva che nell’immaginario coloniale i dannati sono una specie a parte, un tipo particolare di persone desensibilizzate che non piangono i morti come noi, e guardano alla loro povertà con la relativa imparzialità di chi non può aspettarsi nulla di meglio. Collettivamente, i dannati possiedono ciò che Fanon chiamava un’oggettività schiacciante. Non sono esseri umani sacri in sé e per sé ma piuttosto elementi della scenografia davanti a cui si svolge il dramma del potere in occidente. Non possiamo sapere esattamente quali prompt hanno usato con l’intelligenza artificiale i creatori di Trump Gaza number one, ma avrebbero ottenuto più o meno lo stesso risultato se avessero usato l’analisi di Fanon dell’atteggiamento francese verso l’Algeria: “Gli algerini, le donne in haik, i palmeti e i cammelli formano il panorama, lo sfondo naturale della presenza umana francese. La natura ostile, restia, fondamentalmente ribelle è rappresentata nelle colonie dalla boscaglia, le zanzare, gli indigeni e le febbri. La colonizzazione ha avuto buon esito quando tutta quella natura indocile è stata finalmente domata. Ferrovie attraverso la boscaglia, bonifica delle paludi, inesistenza politica ed economica dell’indigenato sono, in realtà, una sola e medesima cosa”.
Prima che cadano le bombe, o che si possa firmare un qualunque contratto immobiliare, il paese va innanzitutto ridotto all’inesistenza concettuale, a un fondale che sia strumentale agli interessi e ai piaceri occidentali. Ha tutto il senso del mondo che il video prenda strutturalmente la forma di una pubblicità per turisti: molti cittadini degli Stati Uniti intravedono i dannati nel mondo reale solo durante una vacanza. Gaza, in questa visione, è lo stesso posto del Marocco, è lo stesso posto dell’“Arabia”, è lo stesso luogo fantasmagorico in cui la Disney ha ambientato Aladdin. Le sue caratteristiche distintive sono: orfanelli a piedi scalzi, palmizi e danza del ventre (anche se in Trump Gaza number one la visione è così implacabilmente maschilista che perfino le danzatrici hanno la barba). Finché sei nel resort non vedi altro che questo, e dal resort non te ne andrai mai – se sei sveglio. Nel mondo di Trump, questa logica può essere perfezionata: esisterà solo il resort. L’altro mondo, il mondo dei dannati, è stato lasciato sul lato B del portale, dal quale si vedono uscire di corsa orfanelli felici, più che pronti a perdonare, dimenticare e spassarsela su un boulevard costruito sopra le ossa dei loro genitori.
Per la Casa Bianca non esiste un concetto generale dell’umano. Ci sono gli americani e poi tutti gli altri
Che un’intelligenza artificiale (ia) abbia rappresentato il portale in modo da farlo somigliare alla bocca di una miniera non sembra una coincidenza. La stessa ia è una tecnologia-portale, che appare in un modo quando viene vista dal “nostro” lato, e in modo ben diverso dalle popolazioni di paesi ricchi di minerali come la Repubblica Democratica del Congo. Negli Stati Uniti, l’ia è un problema di copyright, un video inquietante, uno strumento di propaganda. Dall’altro lato del portale è la corsa distruttiva, estrattiva e violenta a ricavare una quantità sufficiente di cobalto e di coltan dal terreno africano.
Molte cose viaggiano attraverso quel portale che rimuove se stesso e vengono nascoste. Non solo le sanguinose conseguenze delle guerre che finanziamo o che ignoriamo, ma anche tutto ciò che la nostra società produce e con cui non vogliamo avere a che fare. Usando quello stesso portale invadiamo di nuovo i molti “paesi di merda” già colonizzati in passato con tutte le vecchie batterie delle nostre auto, navi da crociera sfasciate, montagne di vestiti usati, continenti di bottiglie di plastica. È a questo che serve un portale. A trasferirsi da un posto a un altro, da un mondo a un altro, e a mantenere la separazione.
Il compito più pressante della sinistra, al momento, è smascherare questa illusione. Ribadire che il mondo in cui viviamo è a tutti gli effetti uno solo, nel quale è ancora possibile stabilire norme universali in grado di proteggere la vita umana nel suo complesso. Per fare questo ci servono istituzioni transnazionali che – anche se imperfette – persistano nel tempo e che non possano essere distrutte unilateralmente dal gruppo di gangster ideologici che in questo momento occupa la Casa Bianca. L’unica cosa che a loro sta a cuore è la disruption, creare una frattura. Non ci sono valori universali nel loro mondo, solo valori statunitensi. Nel loro immaginario, la cura ai mali di questo mondo è la completa sottomissione dei deboli ai forti, e il rimodellamento di tutte le nazioni a immagine e somiglianza della loro. Per contrastare questa visione del mondo servirà lavoro politico, pratico e legislativo, ma anche un fondamento filosofico almeno altrettanto forte del banale “prima gli americani” placcato oro che viene fieramente ostentato in Trump Gaza number one.
Per la Casa Bianca non esiste un concetto generale dell’umano. Ci sono gli americani e poi tutti gli altri. Un mondo che vive parassitariamente sopra un altro. Ma anche noi, di sinistra, siamo complici di queste persone quando non riusciamo a trovare un linguaggio per ribadire l’esistenza di una singola realtà umana, popolata da miliardi di esseri umani sacri, a cui si possono applicare leggi e tutele universali.
Se Fanon è davvero l’uomo del momento, a questo punto è autoindulgente applaudire una chiamata fanoniana alla resistenza violenta e contemporaneamente ignorare la sua altrettanto forte convinzione in un umanesimo radicale come base necessaria per qualunque politica progressista socialista. “Quel che conta oggi”, sosteneva Fanon, “il problema che sbarra l’orizzonte, è la necessità di una redistribuzione delle ricchezze. L’umanità, sotto pena di esserne sconvolta, dovrà rispondere a questa domanda”. Non noi, non loro: l’umanità.
La critica incisiva di Fanon alle pretese coloniali di universalità è stata di un’importanza fondamentale. Ma Fanon non ha mai perso la speranza nella possibilità di un universo giusto, in cui gli esseri umani non siano più trattati unicamente come risorse da sfruttare. Questo tipo di giustizia richiede una difesa dell’umano in quanto umano. Senza la quale ci resta un vuoto, un buco, un portale. Che Trump è ben contento di riempire, con la complicità dell’ia. Ma non possiamo affidare alle macchine le valutazioni che facciamo come esseri umani né permettere a Trump di condurre l’intera umanità in un mondo binario e manicheo di numeri uno contro numeri zero. Di chi conta e chi no. ◆ mt
Questo articolo è uscito sulla New York Review of Books
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1605 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati