Ancora sugli applausi. Immaginate di essere, che so, un insegnante. Immaginate che voi stessi, il giorno prima, abbiate promesso alla scolaresca di portarla a far lezione in cortile. Immaginate di pronunciare, adesso, le seguenti frasi: fa freddo, il cielo è scuro, oggi pioverà. Immaginate che le vostre frasi – il cui senso è: si resta in classe a sgobbare – sia così accolta: fa (applauso) freddo (applauso), il cielo (applauso) è (applauso) scuro (applauso), oggi (applauso) pioverà (applauso). Immaginate che al primo applauso pensate: hanno già capito dove andrò a parare ma, meno male, sono ragionevoli; al secondo fate una smorfia di mal contenuta soddisfazione, che bella classetta vi è toccata; al terzo vi infastidite un po’ perché non vi hanno fatto nemmeno completare la parola; al quarto vi chiedete cosa c’è da applaudire se il verbo essere ha funzione di copula; al quinto vi rendete conto che siete un insegnante d’altri tempi, continuate a credere che gli studenti sappiano di sostantivi, copule, predicati nominali; al sesto maturate la convinzione che, impegnati come sono ad applaudire, non possono prestare sul serio attenzione a ciò che state dicendo ma poiché il capetto di turno applaude, ecco che applaudono tutti gli altri; al settimo capite che ogni applauso era una presa in giro, specialmente perché la scolaresca sta già correndo in cortile sotto la pioggia.

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Questo articolo è uscito sul numero 1447 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati