Quarant’anni fa usciva I diritti animali (Garzanti 1990) del filosofo statunitense Tom Regan, un libro che ha segnato una svolta nel dibattito intorno a questo tema. Secondo Regan, almeno alcuni tipi di animali hanno diritti morali perché sono “soggetti di una vita”, e questi diritti si devono rispettare indipendentemente dal fatto che siano riconosciuti o no da una norma. I diritti, sostiene Regan, non vanno “dati”, perché gli animali li hanno già, al massimo vanno riconosciuti: sono vivere, giocare, non soffrire, provare piacere, crescere i propri piccoli. Oggi una fondazione porta avanti il lavoro di Regan, che è morto nel 2017. Cosa è cambiato in questi anni? Molto, in filosofia: oggi scrivo per Internazionale di cose che anni fa avrei potuto pubblicare solo su una rivista autogestita nei circoli anarchici. Poco, nel mondo reale: gli animali sono pieni di diritto naturale ma poverissimi di diritto normativo. Si parla tanto di una società che riconosca alla fragilità il suo posto nel mondo e che punisca chi maltratta i più deboli, ma consideriamo ancora accettabile incatenare una scimmia in un laboratorio o uccidere un vitello di pochi mesi. Come si passa dal diritto al diritto riconosciuto? Con una rivoluzione, si diceva un tempo. Ma se gli animali non possono farla a chi tocca il compito? A coloro che danno voce a chi non ne ha. Come diceva Kant, probabilmente misureremo l’evoluzione morale di una società umana a partire da come imparerà a trattare meglio tutti i “soggetti di una vita”. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1501 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati