C’è un aspetto interessante della trama di Scooby-Doo, la serie animata prodotta nel 1969 dalla Hanna-Barbera e incentrata sull’omonimo personaggio, che a volte è ingiustamente trascurato. Quando Shaggy Rogers, il padrone e migliore amico di Scooby-Doo, piano piano svela l’identità dei vari mostri con sembianze animali che hanno compiuto qualche malefatta nell’intreccio narrativo della puntata, scopriamo sempre la stessa cosa: ciò che ci sembrava mostruoso, animale o bestiale, in realtà era semplicemente umano. Qualche anno fa Felice Cimatti, un filosofo italiano a cui sono molto affezionato, ha scritto un romanzo intitolato Senza colpa (Marcos y Marcos 2010).Nella trama è nascosta la tesi che il male è solo umano – un’ipotesi di lavoro che era già palese nella Genealogia della morale di Nietzsche – e che uno degli esperimenti più perversi che potremmo concepire è insegnare il male agli altri animali. È quello che, nella finzione narrativa, Cimatti fa accadere ai danni di alcuni primati da laboratorio, con conseguenze sorprendenti. Gli animali misteriosi di Scooby-Doo c’insegnano che la nostra paura verso ciò che non è umano è in realtà proiettiva: pur di non ammettere che i mostri siamo noi, e che il male è dentro di noi molto più che fuori, concepiamo bestie e mostri malvagi che fanno cose che solo noi potremmo farci a vicenda. Capovolgendo il verso di una canzone di Fabrizio De André “non credevi che l’inferno fosse solo lì al primo piano”. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1505 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati