È ormai senso comune che, se l’Italia è dissestata, per rimetterla in sesto ci vuole il credito internazionale di uno come Mario Draghi. Lui ci ha persuasi che un paese screditato, di fronte a problemi la cui dimensione locale è sempre più incastonata dentro quella planetaria, ha bisogno di qualcuno che, malgrado la sua cittadinanza, si sia guadagnato il rispetto di chi nel mondo conta. Il guaio è che qui da noi figure di quel tipo scarseggiano in ogni settore e quando appaiono ci dispiacciono.

Non parliamo poi della politica: se uno s’impone in giro per il mondo, non lo troviamo certo nelle liste elettorali. I nostri capi e capetti hanno tutti un profilo locale, a volte strapaesano e, se finiscono in contesti internazionali, o sgomitano per farsi fotografare a poca distanza dai grandi o puntano all’imitazione. Abbiamo avuto e abbiamo, infatti, piccoli Blair, piccoli Obama, piccoli Trump, piccoli Macron.

Solo da quando Draghi ha un po’ sprovincializzato la figura dell’uomo della provvidenza, chi aspira a questo ruolo nostrano è passato ad atteggiarsi a draghetto. O, fiutata l’aria, s’è dato alla gara a chi è più poliglotta per mostrarsi pronto non solo a risollevare l’Italia, ma anche, mentre la risolleva, a trafficare fluentemente col mondo. Il favorito è Matteo Salvini che, grazie allo spirito santo, al momento opportuno parlerà tutte le lingue tranne quelle dei migranti.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1475 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati