A molti la vittoria dell’Ucraina all’Eurovision non è andata giù perché, dicono, in un festival musicale deve vincere il brano più bello, non la band di un paese invaso. A parte che Stefania dei Kalush Orchestra non è brutta e ti entra in testa per restarci, forse andrebbe riconosciuto, senza timore di nominare il demonio, che l’Eurovision, come tutti gli eventi che attraggono milioni di persone, è una manifestazione prettamente politica. Al posto della gara di canzoni potrebbe esserci un _contest _di brasati, ma sempre politico rimarrebbe. Fin dalla nascita, negli anni cinquanta, quando l’unione delle tv pubbliche europee cercò un modo “sanremese” per distrarre dai vecchi attriti, le ragioni diplomatiche hanno spesso dominato su quelle artistiche: nel 1969, per esempio, l’Austria abbandonò in polemica con la Spagna franchista e nel 1975 la Grecia si ritirò per via della presenza turca. All’Eurovision è geopolitica anche la playlist, tracciata come la mappa di un interrail: Malta, Azerbaigian, Svezia, Islanda… I nomi dei paesi sono più importanti di quelli dei cantanti. Quanta politica c’è poi nella differenza tra il voto popolare dell’ultima edizione che ha premiato la band ucraina, e quello degli esperti, che hanno preferito la nazione meno europeista in gara, il Regno Unito? Belle o brutte che siano le canzoni, andrebbe ascoltata, per usare un’espressione cara ai talk show, anche la pancia degli elettori. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1461 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati