23 dicembre 2020 10:06

Sul settimanale statunitense Time, Stephanie Zacharek si è chiesta se il 2020 non sia stato “l’anno peggiore di sempre”, considerando che “la maggior parte delle persone oggi in vita non ha mai visto niente del genere”. Molti si chiedono se alla fine, con tutti gli effetti del covid-19 in ogni settore, il 2020 non sia da considerare il primo anno del futuro, un anno che mai come prima ci ha fatto riflettere sul riscaldamento climatico, sulle disuguaglianze economiche, sul funzionamento e il destino delle nostre città, sul nostro modo di lavorare, sulla nostra mobilità e sulle differenze di genere. E persino il liberale The Economist, scrivendo un editoriale intitolato L’anno in cui tutto è cambiato, invoca “un nuovo contratto sociale adatto al ventunesimo secolo”.

Quando oggi ci voltiamo indietro e pensiamo all’anno appena trascorso, difficilmente ci ricordiamo che il 2020 è cominciato senza la pandemia e ci dimentichiamo cosa succedeva nei suoi primi due mesi in alcuni scenari strategici del mondo. Oggi è interessante tornare a quel periodo, per vedere come poi il covid-19 ha cambiato le cose o influito sulla politica dei paesi, consegnandoci un mondo trasformato. Dagli Stati Uniti alla Russia, dalla Cina al Regno Unito, dal Medio Oriente all’Europa, l’epidemia ha interagito con la realtà politica degli stati, contribuendo a influenzarla in modi inediti e profondi.

Proviamo a vedere come.

Da Trump a Biden, l’anno di fuoco degli Stati Uniti
Innanzitutto consideriamo gli Stati Uniti. In gennaio Donald Trump decideva di far uccidere da un drone Qassem Soleimani, capo dell’unità speciale Al Quds dei Guardiani della rivoluzione iraniana e uomo delle missioni all’estero del regime di Teheran. Poi affrontava un procedimento di impeachment, di cui si sarebbe liberato grazie al congresso poche settimane dopo, e infine invitava alla Casa Bianca Liu He, vicepremier della Repubblica popolare cinese, con cui firmava un accordo preliminare per mettere fine alla guerra commerciale tra i due paesi cominciata nel 2017. E mentre in febbraio iniziavano delle affollatissime primarie per la scelta dello sfidante democratico e a marzo il mondo cominciava a fermarsi per il virus proveniente da Wuhan, in Cina, alla fine del mese più del 47 per cento degli statunitensi si diceva soddisfatto della presidenza Trump, il dato più alto dal giorno del suo insediamento. Il presidente beneficiava di un ciclo economico positivo creato dal suo predecessore e alimentato dai tagli alle tasse voluti da lui. E questo nonostante le critiche collezionate da Trump durante il suo mandato per i suoi comportamenti e le sue scelte in politica interna ed estera, tra cui le pressioni senza precedenti sul potere giudiziario per ottenere sentenze favorevoli ad alleati e amici, la violazione sistematica dei diritti umani dei migranti, la richiesta di reprimere le proteste pacifiche con la violenza, la collaborazione amichevole con i più efferati dittatori del mondo e gli attacchi frequenti contro la stampa e la libera informazione, accompagnati da una continua mistificazione della realtà e dalla scomparsa di ogni confine tra verità e menzogna nel dibattito pubblico.

Il presidente eletto degli Stati Uniti Joe Biden a Wilmington, Delaware, il 24 novembre 2020. (Joshua Roberts, Reuters/Contrasto)

Ma in aprile gli Stati Uniti diventano l’epicentro mondiale della malattia. La gestione catastrofica del covid-19, la minimizzazione del pericolo, l’indifferenza per le vittime, l’evidente trasgressione delle misure di sicurezza all’interno della Casa Bianca (con il presidente che si ammala, insieme a sua moglie, suo figlio e gradualmente a buona parte dei suoi principali collaboratori, tra cui alla fine anche l’avvocato Rudolph Giuliani), l’incapacità di reagire con misure economiche coraggiose: tutto questo sottrae consensi al presidente ogni mese che passa. Nelle settimane della pandemia Trump polarizza ulteriormente l’opinione pubblica non solo sui temi sanitari e sulla richiesta continua di far ripartire le attività economiche, ma anche attaccando a più riprese i movimenti per la difesa dei diritti civili degli afroamericani, come Black lives matter, e difendendo l’operato di una polizia sempre più violenta e accusata di razzismo. A causa della sua politica di lockdown ridotti e riaperture premature, sostenuta dai governatori repubblicani, gli Stati Uniti non sono di fatto mai usciti dalla prima ondata e, con qualche fluttuazione, sono arrivati al 14 dicembre – proprio il giorno in cui i grandi elettori hanno votato Joe Biden come presidente – con 300mila morti per covid-19, lo 0,1 per cento della popolazione nazionale: l’equivalente di quella di una città media come Pittsburgh.

A novembre, dopo le presidenziali più polarizzate e più partecipate di sempre, e dopo aver cercato in ogni modo di delegittimare il sistema costituzionale, di accusare di brogli gli avversari, di attaccare il voto postale e di violare ogni correttezza costituzionale nominando una giudice della corte suprema a pochi giorni dalle elezioni, Donald Trump – primo presidente dai tempi di George H. Bush a non essere rieletto – viene clamorosamente sconfitto da Joe Biden per sette milioni di voti, dopo aver perso in tutti gli stati tradizionalmente democratici (pure in quelli che aveva conquistato nel 2016), e anche in due stati tradizionalmente repubblicani come Arizona e Georgia. Nonostante questo, Trump si rifiuta ancora di ammettere la vittoria di Biden, continuando a proporre ricorsi che inevitabilmente lo vedono sconfitto. Con 81 milioni di voti Joe Biden è stato il candidato che ha preso più voti nella storia delle presidenziali statunitensi. Ma ora si trova a dover gestire un governo di emergenza in un paese ancora immerso nella pandemia (245mila nuovi casi in un solo giorno il 16 dicembre e 3.600 vittime), nonostante l’inizio della campagna vaccinale.

Il 5 gennaio, in Georgia, il ballottaggio per i due seggi al senato si annuncia molto combattuto e importante, visto che deciderà se il nuovo presidente avrà o meno la maggioranza anche al senato, oltre che alla camera, cosa che gli permetterebbe di governare con maggiore efficacia.

Gli Stati Uniti tornano sulla scena internazionale con una pesante eredità politica, economica e sanitaria

Intanto, se è vero che il congresso ha trovato finalmente l’accordo su un pacchetto di misure di aiuti all’economia per 900 miliardi di dollari con un voto bipartisan, lo staff della campagna elettorale di Donald Trump il 20 dicembre ha di nuovo annunciato che chiederà alla Corte Suprema di ribaltare il risultato delle elezioni del 3 novembre, delegittimando così le istituzioni democratiche e favorendo la diffidenza degli elettori. È vero: con Joe Biden gli Stati Uniti tornano sulla scena internazionale come un paese più affidabile e più fedele e vicino ai propri alleati tradizionali, soprattutto quelli europei. Ma lo fanno con una pesante eredità politica, economica e sanitaria che sarà lunga e difficile da superare.

Il volto oscuro del potere di Vladimir Putin
In Russia invece il 2020 doveva essere l’anno della conferma del potere assoluto di Vladimir Putin, che aveva previsto un referendum costituzionale in aprile per prolungare il suo potere addirittura fino al 2036, affidandosi alla benevolenza dei russi, felici che il presidente avesse riportato il paese a un ruolo di potenza internazionale, dalla Siria alla Libia, approfittando anche delle incertezze della politica statunitense.

Il coronavirus è stato il primo “nemico” che Putin ha sottovalutato da decenni a questa parte. La sua gestione della pandemia ha provocato grave malcontento tra i suoi cittadini. Il virus ha fatto sensibilmente diminuire il gradimento del presidente. Secondo l’istituto di ricerca indipendente Levada center, a maggio aveva l’appoggio del 59 per cento dei russi, la cifra più bassa mai registrata da quando è al potere, cioè di fatto dal 1999.

La propaganda dei media russi ha provato a tranquillizzare i cittadini sull’epidemia. Le continue menzogne sui dati dei contagi e delle vittime sono però state raccontate dalla stampa internazionale. Il crollo del prezzo del petrolio e del gas ha privato la Russia di importanti introiti per far fronte alla crisi e attivare gli ammortizzatori sociali, in un’economia già indebolita dalle sanzioni occidentali adottate a causa dell’annessione della Crimea nel 2014.

Nonostante la pandemia, Putin ha riprogrammato il referendum costituzionale per restare al potere, rinviandolo da aprile al primo luglio. Il plebiscito è stato vinto dai sì con una maggioranza del 78 per cento. I numeri non sono stati avvalorati da nessuna autorità indipendente. L’affluenza ufficiale è stata del 65 per cento.

Aleksej Navalnyj, all’epoca l’unico oppositore realmente importante rimasto in Russia, critico feroce del Cremlino, ha definito i risultati del voto una “grande bugia” che non rifletteva davvero l’opinione pubblica del paese. Poche settimane dopo era in campagna elettorale per le elezioni locali di settembre 2020. Sosteneva la sua tesi sulle amministrative: il voto utile a favore di qualsiasi candidato locale in grado di battere quello del potere. Navalnyj ha avuto un grave malore sull’aereo che il 20 agosto lo stava riportando dalla città di Tomsk, in Siberia, a Mosca. È stato avvelenato con una sostanza chimica e si è salvato solo perché il pilota ha deciso un atterraggio di emergenza. Oggi, dopo un trasferimento rocambolesco in Germania dovuto alle pressioni internazionali e lunghe cure mediche, Navalnyj è sopravvissuto, sta bene, ed è convinto che dietro all’attentato ci sia il Cremlino. E le prove a sostegno di questa responsabilità si accumulano ogni giorno di più.

I paesi dell’Unione europea hanno adottato sanzioni contro funzionari russi coinvolti nel caso già a metà ottobre, dopo la conferma che la sostanza usata nell’avvelenamento era effettivamente il Novichok, un agente nervino di tipo militare. Alcune recenti inchieste hanno prodotto nuovi elementi di prova su quali agenti dell’Fsb russo sarebbero coinvolti direttamente nell’azione, con nomi e cognomi. Putin ha smentito sdegnosamente, ma poi lo stesso Navalnyj è riuscito a far ammettere ad un agente dei servizi segreti russi la sua responsabilità nel tentato avvelenamento. L’uomo, agganciato con una finta telefonata nella quale il dissidente russo ha finto di essere un assistente del segretario del Consiglio di sicurezza, ha detto che i servizi avevano inserito il Novichok nelle mutande di Navalnyj.

L’oppositore russo Alexei Navalnyj a una manifestazione a Mosca, il 29 febbraio 2020. (Kirill Kudryavtsev, Afp)

È difficile per gli osservatori occidentali capire perché Putin, che ha il potere da vent’anni e si è appena assicurato la possibilità di averlo per altri quindici, dovrebbe aver ordinato un crimine del genere. Ma è successo già molte volte in questi ultimi vent’anni, nei tanti casi di omicidi più o meno noti avvenuti a Mosca e nel resto del paese, dalla giornalista Anna Politkovskaja al politico Boris Nemtsov. Nel caso Navalnyj c’entra forse anche la pandemia, il senso di insicurezza del potere in questa fase a cui non sono estranei i problemi di alcuni paesi autoritari o instabili che appartengono alla sfera d’influenza russa (e che erano parte dell’Unione Sovietica). Soprattutto la Bielorussia, scossa da una rivoluzione contro il dittatore amico di Putin, Aleksandr Lukašenko, ma anche i disordini in Kirghizistan e il conflitto tra Armenia e Azerbaigian per il Nagorno Karabakh. “Lo scopo dell’attentato a Navalnyj è quindi quello di intimidire i russi e di far loro passare immediatamente ogni tentazione di prendere la strada della Bielorussia”, ha scritto il quotidiano polacco Polityka.

“Presto vedremo come l’epidemia e le sue conseguenze distruttive sulla sanità nazionale e sull’economia saranno sfruttate per giustificare l’ennesima limitazione dei diritti civili”, ha ammonito lo scrittore russo Sergej Lebedev. Quello che si può notare è che se sul fronte interno c’è stato un irrigidimento del potere, su quello internazionale Mosca è parsa propensa a usare una tattica più attendista e meno interventista che negli anni precedenti. Sia con la Bielorussia sia nella crisi del Caucaso, il Cremlino non ha voluto farsi coinvolgere troppo direttamente, sfruttando il peso economico e politico che la Russia ha costruito in quelle zone con decenni di investimenti, di forniture energetiche e di presenza militare, e a trarre il massimo beneficio dalla crisi.

Sul fronte della pandemia a inizio dicembre i dati ufficiali (che vanno presi con le molle) hanno registrato 2.402.949 contagi totali e 42.176 decessi. Mosca intanto il 5 dicembre ha avviato la sua campagna vaccinale con il vaccino Sputnik V, sviluppato dall’istituto Gamaleya. E anche se le autorità russe hanno ricevuto diverse critiche internazionali per non aver aspettato la conclusione dei test su larga scala dell’efficacia del vaccino, lo Sputnik V è diventato uno strumento diplomatico: il vaccino russo è in produzione o sta per esserlo in Kazakistan, India, Brasile e Argentina. Dei campioni del farmaco sono stati inviati in Ungheria, Uzbekistan e Serbia.

Dalla via della seta alla punta del fucile
Il 2020 sembrava invece l’anno della consacrazione finale del soft power della nuova Cina, potenza autoritaria ma entusiasta della globalizzazione e rispettosa degli impegni multilaterali, pronta molto più degli Stati Uniti di Donald Trump alla discussione e al negoziato. E pronta soprattutto a consolidare i suoi investimenti nel mondo, in particolare nei paesi in via di sviluppo, ma anche in Europa e in Italia. Proprio all’inizio del 2020 la guerra commerciale con gli Stati Uniti sembrava essere giunta a una prima tregua, almeno momentanea, con la visita alla Casa Bianca di Liu He, vicepremier della Repubblica popolare cinese. E l’Europa cercava un dialogo diretto con Pechino su argomenti scottanti come il 5g e i rapporti con Huawei, smarcandosi dalla linea dura statunitense su questi temi.

Sul fronte interno, sotto l’egida del nuovo “imperatore” Xi Jinping, oggetto di un vero e proprio culto della personalità, il regime cinese aveva imposto un’autorità di ferro alla più numerosa popolazione mondiale, 1,4 miliardi di persone, e nonostante ogni velleità di opposizione fosse stata cancellata e il controllo sociale fosse esercitato con l’uso massiccio di tecnologie molto avanzate, tanti cinesi sembravano convinti che il loro tenore di vita fosse migliorato e che il prestigio della Cina fosse cresciuto.

Poi è cominciata l’epidemia di covid-19 nella città di Wuhan. Nonostante le lodi inizialmente prodigate dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e dal suo direttore generale etiope (nominato a quel posto anche grazie a Pechino) alla Cina per la gestione del virus, ci sono senz’altro stati ritardi e minimizzazioni, silenzi che hanno danneggiato l’immagine del paese nel mondo. Con l’efficacia e la capillarità che solo uno stato fortemente autoritario può avere, Pechino ha sigillato intere città e regioni e da un certo punto in poi ha combattuto efficacemente l’epidemia, evitando la seconda ondata, senza però dissipare i dubbi sulla gestione dell’emergenza diventata poi globale.

Una squadra pronta a disinfettare la stazione dei treni di Wuhan, in Cina, il 24 marzo 2020. (Afp)

La credibilità internazionale della Cina ne ha risentito e molti paesi sono diventati più diffidenti verso Pechino. Non solo: a partite da marzo un’aggressiva strategia diplomatica ha spinto ambasciatori e rappresentanti cinesi in teoria autorevoli – sostenitori della cosiddetta diplomazia “del lupo guerriero” – ad aggredire verbalmente altri paesi (rispondendo in particolare alle provocazioni verbali di Donald Trump, ma non solo), sostenendo teorie complottiste sull’origine del virus o diffondendo notizie false per screditare il modo in cui altri governi, soprattutto occidentali, reagivano alla pandemia, contrapponendoli all’efficienza di Pechino.

E a questo punto il soft power è stato offuscato da una strategia diversa: una serie di decisioni sempre più aggressive e autoritarie nei mesi successivi hanno preoccupato il mondo. Pensiamo all’imposizione della legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong, e alla repressione violenta che ne è seguita, culminata nella normalizzazione totale del territorio (in violazione dei trattati internazionali firmati con il Regno Unito) e nonostante i prevedibili danni economici conseguenti a questa scelta. Pensiamo ai rapporti con l’India, che si sono incrinati dopo gli scontri militari tra i due paesi sull’Himalaya. Pensiamo all’atteggiamento aggressivo che la Cina ha rispetto ai paesi vicini – in particolare ovviamente Taiwan, anche quando questa ostilità danneggia la lotta al covid-19 – e alla crescente militarizzazione del mar Cinese meridionale.

La Cina arriva a questa fine del 2020 paradossalmente rafforzata e indebolita

Pensiamo alle notizie, in parte già note ma sempre più preoccupanti, sul destino degli uiguri, la minoranza musulmana nella regione dello Xinjiang, perseguitata da Pechino. I rapporti delle ong e delle organizzazioni internazionali riferiscono ormai apertamente di un milione di persone detenute in campi di rieducazione, di sterilizzazione forzata delle donne uigure e di campi di lavoro.

Alla fine dell’anno i dieci paesi dell’Asean, l’associazione delle nazioni del sudest asiatico (Thailandia, Vietnam, Laos, Cambogia, Filippine, Indonesia, Malaysia, Brunei e Singapore) hanno firmato con Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda il Partenariato economico globale regionale (Rcep), il più grande accordo di libero scambio della storia. I 15 paesi insieme rappresentano un terzo del pil globale. L’accordo consacra il peso economico di Pechino nella regione e ha avuto grande risonanza in tutto il mondo (anche per l’assenza dell’India e le perplessità degli Stati Uniti). Meno risonanza aveva avuto a ottobre il vertice di cooperazione nel settore della sicurezza tra India, Stati Uniti, Giappone e Australia per la difesa di uno spazio “Indo-Pacifico libero e aperto”, a cui sembrano interessati molti altri paesi dell’area, che si sentono minacciati dalla crescente aggressività militare e strategica di Pechino.

La Cina quindi arriva a questa fine del 2020 paradossalmente rafforzata e indebolita. Rafforzata dall’aver saputo sconfiggere l’epidemia con gli strumenti propri di un paese autoritario fondato su una grande disciplina sociale e dal fatto di essere di fatto l’unico grande stato del mondo a chiudere l’anno con l’economia in crescita, nonostante la pandemia. Indebolita perché, nonostante la diplomazia delle mascherine prima e quella del vaccino poi, che in quest’ultimo periodo è diventata molto imponente, ha mostrato il suo volto bellicoso e autoritario sia sul fronte interno sia su quello esterno, facendosi non pochi nemici o rendendo una serie di paesi molto più prudenti nel dialogo con Pechino. Molte di queste scelte aggressive erano in continuità con la tradizionale politica estera cinese, ma sono state portate avanti senza alcuna esitazione, nonostante il clima che si era venuto a creare con la pandemia nata a Wuhan.

La diplomazia di Abramo nel futuro di Israele
Quando è cominciato il 2020, Israele era per l’ennesima volta in campagna elettorale, per il terzo voto politico in un anno, quello del marzo 2020 (si era già andati alle urne nell’aprile del 2019 e nel settembre del 2019). A ogni tornata gli osservatori pensano che sia in gioco il destino del premier Benjamin Netanyahu, protagonista della vita politica del paese dalla fine degli anni novanta, e che possa essere arrivato il momento del suo tramonto, ma alla fine lo scaltro leader della destra israeliana riesce sempre a non farsi superare dagli sfidanti, che spesso si rivelano non all’altezza, e a rimanere il centro del sistema politico.

Stavolta Netanyahu non si è fatto scrupolo di reclutare in campagna elettorale esponenti di piccole formazioni razziste per cementare una coalizione tra la destra, l’estrema destra e i partiti religiosi in grado di conquistare il governo del paese battendo il partito centrista Blu e bianco, guidato dall’ex generale Benny Gantz. E Netanyahu si è giocato la promessa definitiva, in grado di fare sognare la destra sionista: l’annessione di gran parte della Cisgiordania. Dopo che per anni ha finto di accettare la soluzione a due stati – anche su richiesta delle varie amministrazioni statunitensi – lavorando a sabotarla sul terreno, il premier stavolta ha gettato la maschera e ha promesso l’annessione unilaterale della valle del Giordano e dei principali blocchi di insediamenti israeliani in Cisgiordania.

Forte del rapporto solido con Donald Trump – pronto ad accontentare tutte le rivendicazioni storiche della destra israeliana nel “piano di pace” elaborato da suo genero e consigliere Jared Kushner – della debolezza dell’Europa su questo scenario e della marginalizzazione della causa palestinese, ha approfittato della situazione, anche se era sotto processo per reati di corruzione.

Alla fine delle elezioni del marzo 2020, mentre il mondo è già travolto dalla pandemia, per evitare di tornare alle urne per la quarta volta in un anno, Benny Gantz vìola la sua principale promessa politica ed elettorale e decide di fare un governo di “grande coalizione” con Netanyahu. Anche il nuovo governo israeliano, però, ha nel suo programma di coalizione l’annessione di quasi tutte le colonie delle Cisgiordania e della valle del fiume Giordano.

Ma poi arriva il covid-19.

La gestione dell’epidemia da parte del governo non convince, né da un punto di vista sanitario né economico. Il premier è sotto processo per corruzione, frode e abuso d’ufficio e dall’inizio dell’estate cominciano manifestazioni e cortei che si fanno sempre più numerosi, ogni sabato sera, sotto casa di Netanyahu, primo capo del governo israeliano a essere processato mentre è in carica. La polizia interviene, spesso con la violenza, per sgombrare i manifestanti.

Il progetto di annessione viene gradualmente messo tra parentesi. All’atto unilaterale viene preferita la diplomazia, con gli Accordi di Abramo, che nel corso dei mesi portano Israele a stabilire relazioni diplomatiche con vari paesi arabi con cui non le aveva mai avute: Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco.
I grandi sconfitti degli Accordi di Abramo sono ancora una volta i palestinesi: mentre il riconoscimento di uno stato per loro è lontano, i paesi arabi della regione fanno la pace con Israele in funzione anti-iraniana, per contrastare il potere di Teheran nella regione. Dietro queste scelte c’è l’Arabia Saudita e il suo principe ereditario, il potente e spietato Mohammed Bin Salman (Mbs), l’uomo che ha ordinato di far uccidere e fare a pezzi il giornalista Jamal Khashoggi all’interno del consolato saudita di Istanbul nell’ottobre del 2018.

Secondo alcuni osservatori gli accordi di Abramo – che costituiscono in ogni caso una novità nella diplomazia regionale, formalizzando soprattutto un avvicinamento tra Israele e le monarchie sunnite del Golfo Persico che era in corso da anni – aiuteranno comunque a normalizzare la situazione nella regione e quindi a delegittimare quella propaganda da fortino assediato circondato da paesi ostili che ha contribuito a costruire la mentalità di Israele fino a oggi. Ma in questo momento un’evoluzione del genere è difficile da immaginare. La questione palestinese non è risolta, l’occupazione militare e la colonizzazione della Cisgiordania si approfondiscono ogni giorno. Ci sono milioni di palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza privi di diritti, e questo non sembra costituire un problema per la maggioranza degli israeliani.

Ma cosa vuole diventare Israele? Cos’è diventato il progetto politico sionista? La radicalizzazione della destra israeliana sulle posizioni del movimento dei coloni e la riduzione ai minimi termini della sinistra e del movimento per la pace hanno reso Israele lo stato modello per le destre populiste e nazionaliste di tutto il mondo. Nel paese si sono approvate decine di leggi negli ultimi anni che limitano i diritti dei cittadini non ebrei, che ostacolano il lavoro delle ong e delle organizzazioni che difendono la democrazia, la pace o i diritti dei palestinesi. Discorsi apertamente razzisti verso gli arabi sono regolarmente pronunciati alla Knesset, il parlamento israeliano, senza che nessuno di scandalizzi. Netanyahu ha ottimi rapporti non solo con Donald Trump e i principi sauditi, ma anche con l’ungherese Viktor Orbán, con il brasiliano Jair Bolsonaro, con l’indiano Narendra Modi e con partiti e movimenti di destra di tutto il mondo, spesso razzisti, suprematisti e talvolta antisemiti, ma che vedono nel paese un esempio su come trattare, senza troppi problemi e scrupoli, i cittadini musulmani o per estensione gli immigrati musulmani. Che senso ha tutto questo per il progetto sionista e per il rapporto con il paese degli ebrei della diaspora? È la domanda che si pone Sylvain Cypel nel suo saggio L’Etat d’Israël contre les Juifs, uscito quest’anno in Francia.

Alla fine del 2020 le tensioni accumulate nella gestione della pandemia (con 370mila casi complessivi in Israele e 118mila circa in Cisgiordania e a Gaza, numeri preoccupanti per un territorio piccolo) e i processi del premier hanno messo in crisi il governo. Una nuova formazione di destra è nata con l’obiettivo di disarcionare l’ingombrante Netanyahu, mentre il partito Blu e bianco ha deciso di sostenere una mozione dell’opposizione per sciogliere il parlamento, che potrebbe portare il paese a nuove elezioni entro marzo del 2021. Nel frattempo il presidente degli Stati Uniti non sarà più lo stesso, ma niente lascia pensare, però, che le questioni di fondo sul futuro della democrazia israeliana e sul rapporto con i palestinesi saranno davvero affrontate in questa ennesima campagna elettorale.

Il sogno della Brexit e l’incubo della Brovid
Il 2020 doveva essere l’anno glorioso della Brexit, l’anno della Global Britain, secondo i sostenitori del premier conservatore Boris Johnson, l’anno in cui il paese avrebbe ritrovato indipendenza economica e politica e sarebbe tornato a essere un attore globale, una potenza economica-ponte tra Stati Uniti ed Europa, protagonista di una nuova scena internazionale in cui nazioni e nazionalismi sarebbero tornati a pesare più di prima. “Dopo decenni di ibernazione, torniamo a essere ancora una volta promotori del libero scambio globale”, si è vantato il primo ministro britannico a febbraio, dopo aver lasciato l’Unione europea, augurandosi di firmare prima possibile accordi commerciali con l’Unione ma soprattutto con molti altri paesi, in primis gli Stati Uniti.

Poi è arrivato il coronavirus.

Oggi il Regno Unito si trova ad aver avuto quasi due milioni di casi accertati, e con circa 66mila morti è tra i paesi europei con più vittime in assoluto. Una catastrofe che porta il nome di Johnson, che ha perso almeno tre settimane fondamentali nel mese di marzo inseguendo il negazionismo sul covid-19 e sostenendo inizialmente di voler raggiungere un’impossibile immunità di gregge. E poi accettando la chiusura delle scuole e dei pub come necessità solo l’ultima settimana di marzo, ma senza procedere subito a un lockdown severo. Fino ad ammalarsi lui stesso di covid e a restare malato per varie settimane. Le esitazioni di BoJo sono state pagate dal paese in termini di vite umane. Secondo Neil Ferguson, epidemiologo all’Imperial college, si sarebbe potuta evitare la metà delle vittime della prima ondata se il lockdown fosse cominciato una settimana prima.

Scritte luminose in omaggio ai lavoratori della sanità. Londra, Regno Unito, 21 dicembre 2020. (Joseph Okpako, Getty Images)

Tutto ciò è costato carissimo anche in termini economici poiché, una volta che ci si è finalmente decisi alla chiusura, il lockdown ha dovuto essere più lungo che altrove e con un ritorno alla normalità solo in estate. “Il calo del prodotto interno lordo nel secondo trimestre del 2020 ha raggiunto il 20,4 per cento, secondo i dati diffusi il 12 agosto dal British statistical office (Ons). Di gran lunga il peggior risultato in Europa”, ha scritto Le Monde. Il governo è corso ai ripari iniettando denaro nell’economia, ma la seconda ondata – come in tutti gli altri paesi europei – ha tarpato le ali della ripresa, appesantita dall’incertezza nei negoziati sulla Brexit e sulle relazioni future con l’Unione.

Non solo: a fine anno, già in piena seconda ondata, decine di paesi hanno bloccato i voli con il Regno Unito in risposta alla diffusione di una nuova variante del virus sars-cov-2, e il paese ha dovuto sperimentare un Natale in lockdown parziale, con divieto di riunioni familiari in tre regioni dell’Inghilterra.

Sulla Brexit e le sue regole le trattative sono andate avanti per mesi, e Boris Johnson si è dimostrato un negoziatore ondivago e poco affidabile mentre l’Unione europea ha mostrato serietà, fermezza e unità.

Ai britannici era stato venduto da anni un sogno irrealizzabile: con la Brexit avrebbero avuto tutti i vantaggi del mercato unico senza stare nell’Unione europea e tutti i vantaggi di un ritorno pieno alla sovranità nazionale. Era un bluff colossale, e ora che si negoziano i veri termini dell’accordo tutti se ne stanno rendendo conto.

A questo punto si sta pericolosamente avvicinando il termine ultimo, il 31 dicembre 2020, dopo il quale c’è un’uscita del paese dall’Ue senza accordo, il cosiddetto no deal, che significherebbe il ripristino di frontiere, dogane e dazi per il Regno Unito, di fronte a un’Unione a 27 paesi che rappresenta almeno la metà del commercio nazionale. Sarebbe un grave problema per l’Ue, ma una catastrofe per Londra. E ancor più per il paese intero, dove gli scozzesi – tradizionalmente europeisti – sono già pronti a chiedere un nuovo referendum sull’indipendenza, dopo quello del 2014, e ancor più lo saranno nel caso di una Brexit senza accordo.

I britannici temono gli effetti perversi del “Brovid”, neologismo che indica la somma di Brexit+covid, sulla già provata economia nazionale. Senza contare che il paese arriva comunque alla scadenza dei termini impreparato ad affrontare l’uscita dal mercato unico e dall’unione doganale, come sottolinea un recente rapporto parlamentare.

E cosa accade sugli altri fronti della Global Britain? Il bilancio sembra piuttosto magro: l’unico trattato di libero scambio firmato nel 2020 è quello con il Giappone. Non è stato firmato neppure il tanto agognato accordo con gli Stati Uniti di Donald Trump – che pure a parole era stato un grande sostenitore della Brexit – e Johnson ha avuto modo di lamentarsi ironicamente della durezza dei negoziatori statunitensi, in barba alla tradizionale special relationship.

La forza tranquilla dell’Europa
Al di là di come finirà il negoziato in extremis sulla Brexit, quello che va registrato è certamente “la forza tranquilla dell’Europa”, come l’ha chiamata Le Monde in un suo editoriale. L’Unione non si è divisa di fronte ai tentativi di Johnson e ha tutelato il mercato comune e le regole comuni in maniera compatta e unitaria. È una buona notizia e non è l’unica che viene quest’anno dal vecchio continente. L’Unione europea ha saputo – dopo una reazione iniziale deludente – affrontare la pandemia con una forza e una determinazione senza precedenti, mettendo in campo strumenti inediti e risorse cospicue.

Di fronte a un pericolo straordinario, i 27 – con tutte le resistenze, i dubbi, le lentezze e i compromessi che conosciamo – sono stati comunque in grado di abbandonare le politiche di austerità degli anni precedenti e di mettere in campo degli strumenti straordinari adatti ai tempi. E di stanziare centinaia di miliardi per il recovery fund, il fondo per la ripresa, mettendo in comune il loro debito per andare in soccorso dei paesi più colpiti dalla pandemia, oltre a finanziare una serie di programmi speciali di sostegno ai disoccupati e per le spese sanitarie. Senza contare che la Banca centrale europea ha continuato il programma di acquisto dei titoli di paesi in difficoltà, particolarmente prezioso in tempo di crisi.

Nelle settimane finali dell’anno l’Unione si è inoltre trovata a dover gestire una serie di problemi politici importanti, oltre alla Brexit: affrontare e superare il veto di Polonia e Ungheria al bilancio europeo e al recovery fund causato dal problema del rispetto dello stato di diritto, su cui si è raggiunto un buon compromesso che è senz’altro un passo avanti politico per l’Unione. Si è confermata leader nella lotta al cambiamento climatico, trovando un accordo su un taglio delle emissioni del 55 per cento entro il 2030. La Commissione europea non solo ha dovuto coordinare le politiche di vaccinazione in tutti i paesi dell’Ue, ma ha presentato nuove e innovative proposte per regolamentare il settore digitale, favorire la libera concorrenza e ridurre il dominio dei giganti di internet (Amazon, Facebook e Google). Infine ha persino trovato un accordo sulle sanzioni da adottare contro la Turchia – nonostante le difficoltà di essere unitari nelle scelte di politica estera – a causa del suo atteggiamento aggressivo e bellicoso nel Mediterraneo (e dopo aver sanzionato dei funzionari russi per il caso Navalnyj in ottobre).

Per concludere, se c’è qualche buona notizia in questo 2020, non prevedibile all’inizio di quest’anno, va cercata nel passo avanti politico ed economico compiuto dai paesi dell’Europa democratica nella loro integrazione. “Ne usciremo migliori” era l’auspicio che si sentiva ripetere nei mesi più duri della pandemia. Se probabilmente non è vero per gran parte del mondo, che non sembra migliorato, è forse vero per la buona vecchia Europa, che senza molti leader brillanti né statisti di grande spessore, riesce ancora – anche se con fatica e purtroppo non sul tema dell’immigrazione – a trovare la forza di fare dei passi avanti in un mondo incerto e imprevedibile.

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